Beyoncé oltre il country: Cowboy Carter è il suo manifesto politico
29 marzo 2024, ore 19:32 , agg. alle 20:31
Ventisette tracce che parlano di riappropriazione e di storia americana, sancendo un nuovo capitolo nella vita artistica della star texana
Non è un album country, è un disco di Beyoncé. Deliziosamente anacronistico nella forma, con un’ora e 20 minuti di durata e pezzi che superano i cinque minuti nell’epoca delle canzoni da meno di tre minuti e di veloce fruizione. Nel 2016 le dissero che non poteva fare country, quando si esibì ai CMA Awards: troppo pop, troppo nera. Che si sbagliassero Queen Bey lo ha dimostrato con un album che parla di riappropriazione, di storia americana con precisi riferimenti ai movimenti civili che alla fine degli anni Sessanta chiedevano pari diritti per gli afroamericani senza dimenticare la propria, di storia: e quindi fa riferimento alla mancata vittoria ai Grammy e allo scandalo che otto anni fa coinvolse il marito Jay Z e il tradimento confermato nell’album Lemonade.
LA RADIO IMMAGINARIA DI BEYONCÉ
Definirlo album sarebbe riduttivo. Beyoncé ha creato una “radio”, in cui a fare da speaker sono gli artisti che hanno reso grande il country statunitense: Dolly Parton, Willie Nelson e Linda Martell si alternano per annunciare fasi diverse del disco. Dolly Parton precede la cover di Jolene, citando “Becky with the long hair”, nome di fantasia con cui la voce di “TEXAS HOLD ‘EM” identificava l’amante del marito nel singolo del 2016 Sorry. Beyoncé prende il pezzo del 1974 e ne rovescia il significato riscrivendolo: non è più la storia di una donna che prega un’altra ragazza di non rubarle il fidanzato, ma un avvertimento a “tenersi alla larga”. Willie Nelson è chiamato a disannunciare i pezzi della “KNTRY Radio Texas”, dove la commistione tra generi regna sovrana. E ancora, Linda Martell, la prima donna di colore a suonare nel tempio bianco conservatore del Grand Ole Opry, tra gli applausi del pubblico introduce “YA YA”: la canzone, tra le più interessanti dell’album, cita la Good Vibrations dei Beach Boys. A prestare la loro voce, a sorpresa, anche Miley Cyrus e Post Malone, che duettano con l’artista texana in “II MOST WANTED” e “LEVII’S JEANS”, oltre alla voce della figlia, Rumi Carter, che a sette anni viene accreditata come artista in “PROTECTOR”.
IL MANIFESTO DELL’ARTISTA
Il disco si apre con la rivendicazione di appartenenza a un genere che per troppi anni è stato difeso da conservatorismi dalle tinte razziste: “Non sanno quanto ho dovuto lottare per questo”, canta Beyoncé nel singolo di apertura “AMERIICAN REQUIEM”. Archiviata la musica da club del primo atto di Renaissance, Queen Bey imprime la sua indelebile impronta soul sulla musica “dei bianchi”, nascondendo l’intento politico nello stesso nome dell’album: non Cowgirl Carter, il “boy” nel titolo è un riferimento a come un tempo venivano chiamati gli ex schiavi. E in questo senso anche l’inserimento nelle ventisette tracce della cover di Blackbird, il classico dei Beatles del 1968, non è casuale: Paul McCartney la scrisse ispirandosi a fatti di cronaca legati ai movimenti per i diritti civili degli afroamericani. E ancora, la voce di “Listen” non si risparmia e senza strafare si cimenta anche nella lirica, con l’interpretazione in italiano dell’aria settecentesca “Caro Mio Ben”, che impreziosisce il singolo “DAUGHTER”. Voleva rivendicare la sua appartenenza al genere con un progetto su cui ha lavorato per oltre cinque anni, ma ha fatto molto di più: Cowboy Carter non è un solo un disco, ma un’esperienza, è musica come la si faceva alla fine del secolo scorso, è una lezione di storia americana ma, soprattutto, un manifesto politico.