02 gennaio 2021, ore 15:00 , agg. alle 16:15
Nuovi accertamenti per valutare se ci sia un nesso tra la morte e la condotta dei sanitari e se, tra le altre cose, la malattia poteva essere diagnosticata prima
Imane Fadil, una delle testimoni del processo Ruby, è stata stroncata da una malattia rara, una forma di aplasia midollare che le era stata diagnosticata tre giorni prima di morire nella clinica milanese. Così, a metà settembre 2019, dopo mesi di complessi accertamenti, avevano stabilito gli inquirenti. Subito dopo la morte, il primo marzo di due anni fa, gli esiti di alcune analisi avevano destato non poco allarme e si creato un giallo: l'ipotesi, poi smentita dai successivi accertamenti, era avvelenamento con sostanze radioattive o metalli pesanti. Ipotesi che allora aveva anche un senso per via di una telefonata in cui la ragazza al suo legale dell'epoca aveva spiegato: "Volevano farmi fuori". La Procura milanese, all'esito delle complesse indagini, aveva chiesto di archiviare l'inchiesta aperta per omicidio volontario, escludendo anche responsabilità mediche. Nell'istanza di opposizione discussa in udienza nel febbraio del 2020, i legali dei familiari, gli avvocati Mazzali e Nicola Quatrano, avevano indicato al gip la necessità di disporre tutta una serie di nuove "valutazioni peritali", anche sulle presunte responsabilità dei medici nelle terapie, a loro dire, sbagliate e sulla diagnosi non tempestiva. Per il giudice, come si legge nel provvedimento, sono "necessarie ulteriori indagini per avere un quadro probatorio chiaro ed esaustivo" sul caso. Per il gip, come hanno sostenuto i legali della famiglia, servono "ulteriori approfondimenti attraverso specifica valutazione peritale" per verificare se "fosse prevedibile ed evitabile la emorragia gastroesofagea che ha determinato la morte di Imane Fadil", se fosse "possibile un accertamento più tempestivo della diagnosi della malattia" e se dunque si "poteva evitare il decesso" con "le cure del caso". Il gip ha quindi fissato un termine di 6 mesi per le nuove indagini restituendo gli atti ai pm.
Dubbi sull'assenza di colpa medica
Non basta quanto sinteticamente affermato da un consulente della Procura di Milano sulla assenza di colpa medica in capo ai sanitari che hanno avuto in cura Imane Fadil. Lo scrive il gip di Milano Alessandra Cecchelli nelle sette pagine di ordinanza con cui, accogliendo la richiesta dei legali della famiglia, ha deciso di riaprire il caso ordinando nuove indagini sul fronte delle eventuali responsabilità mediche. Nel provvedimento il giudice ricorda che il consulente di parte della famiglia della modella ha messo in luce la tardiva disponibilità del risultato dell'analisi istologica della biopsia osteomidollare, oltre che un'errata interpretazione delle risultanze diagnostiche acquisite in itinere dai sanitari curanti, una mancata esecuzione della necessaria terapia immunosoppressiva e una ingiustificata esecuzione di procedure di plasma exchange. A fronte delle complessive risultanze dell'indagine, tra cui appunto consulenze e anche testimonianze dei medici riportate nell'ordinanza, per il gip "le conclusioni" raggiunte dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dal pm Luca Gagglio non paiono sufficienti allo stato per accogliere la richiesta di archiviazione.