The Beatles - Eight Days a Week, la vita dei Beatles firmata da Howard
16 settembre 2016, ore 17:44
agg. 28 marzo 2023, ore 17:42
Il premio Oscar Ron Howard firma questo rockumentary che testimonia la vita in tour dei Beatles dal 1962 al 1966
È arrivato ieri nei cinema italiani, dove resterà fino a mercoledì 21 settembre, “The Beatles - Eight Days a Week: The Touring Year” il documentario girato dal premio Oscar Ron Howard sul periodo che dal 1962 al 1964 ha visto The Beatles passare dall’essere quattro ragazzi cresciuti nella Liverpool post bellica a diventare il più grande fenomeno nella musica pop.
L’aspetto sul quale si sviluppa il film è espresso già nel titolo: il racconto di una tabella di marcia che vedeva impegnati i fab four “Eight Days A Week” otto giorni a settimana, come dichiarò una volta Ringo Starr; otto giorni a settimana tra palchi, interviste, primati abbattuti, folle oceaniche in delirio, conferenze stampa e una pressione altissima affrontata fino allo stremo con naturalezza e sfrontatezza dai "Fab Four", fino al loro ultimo tour conclusosi nel gennaio 1966 al Candlestick Park di San Francisco.
Affrontare nel 2016 una materia ampiamente dibattuta come la carriera di quella che è considerata da molti, se non da tutti, la più importante band nella storia della musica contemporanea, è faccenda rischiosa, ma Howard riesce a rendere estremamente piacevole il viaggio, facendo il giusto tributo sia ai Beatles musicisti che a al fenomeno di costume.
Un lavoro enorme di documentazione con materiali di archivio, contributi inviati dai fan di tutto il mondo, montaggi, rimasterizzazioni, registrazioni inedite, nuove interviste a descrivere un’epoca attraverso la musica e le immagini dei Beatles. La band viene presentata come forza della natura nella dimensione live, a volte snobbata, mostrando come riuscisse a suonare perfettamente anche in situazioni quantomeno complicate dal punto di vista tecnico e nonostante le urla assordanti della folla in visibilio che addirittura riuscivano a coprire il suono degli stessi strumenti.
Ieri sul “blue carpet” di Leicester Square a Londra - dal quale è andato in onda in diretta mondiale il pre-show della premiere con ospiti come Madonna, Liam Gallagher e i Monty Python Gillian e Palin - Paul McCartney e Ringo Starr hanno dichiarato che guardando le immagini del concerto allo Shea Stadium di New York si sarebbero ascoltati per la prima volta perché, sovrastati dal rumore di 55.000 fan, durante il concerto fu impossibile.
Al di là dell’aspetto emozionale e filologico, come sottolineato dallo stesso Ron Howard, la chiave di tutto però sta nello “storytelling”, perché è quello il fulcro dell’opera: un insieme di storie.
Le parole di John Lennon, George Harrison, Paul McCartney e Ringo Starr, di Larry Kane, cronista al seguito della band nel tour ’64 - ’65, quelle di fan famosi come Elvis Costello, Whoopi Godlberg e Sigourney Weaver scovata in fase di montaggio, ragazzina, tra la folla dello show all' Hollywood Bowl. Ci sono le loro storie, ma anche quella del concerto del 1964 a Jacksonville, Florida, quando la band si rifiutò di salire sul palco del Gator Bowl che prevedeva la segregazione razziale del pubblico, semplicemente perché riteneva che fosse una cosa stupida. Quella sera bianchi e persone di colore videro il concerto insieme, i Beatles inserirono il divieto di segregazione come clausola nei contratti di tutti i futuri concerti, e segnarono un precedente storico. C’è la storia del manager Brian Epstein e delle sue geniali intuizioni, come quella della "divisa alla Beatles", un uomo che riuscì a tenere le redini di quel “mostro a quattro teste” in quattro anni esaltanti e sfiancanti che videro i Beatles crescere a dismisura, fare il primo tour negli stadi nella storia del rock, con scene di isteria collettiva da far impallidire qualsiasi artista contemporaneo, e il mondo intorno cambiare radicalmente. L’immagine dei Beatles che ne viene fuori è quella di quattro ragazzi sempre pronti a mettersi in gioco e devoti alla musica, divertenti e ironici, naturali, sfrontati e quasi ignari di quanto fossero diventati parte integrante della cultura giovanile (e non solo) dell’epoca, perché per loro era solo “a good laugh”, come dice ad un certo punto McCartney, una bella risata, pur affrontata in modo serissimo.
Gli Stati Uniti del dopo Kennedy e le loro contraddizioni sono spesso lo scenario dell'azione, in cui i quattro di Liverpool vennero prima inondati di affetto in maniera quasi inaspettata, esagerata, salvo poi dare uno dei colpi di grazia alla già degradante voglia di live della band ormai stremata da così tanta pressione, con minacce, cortei, e opposizioni dopo la celebre intervista in cui Lennon osò inserire i Beatles prima di Gesù, e a nulla valsero le pubbliche scuse. I Beatles decisero di, in qualche modo, allontanarsi da sé e giocare a trasformarsi nella fittizia Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band limitando il lavoro al solo studio di registrazione fino alla celebre, ultima apparizione dal vivo sul tetto degli uffici della loro etichetta nel 1969. Il resto, come si dice, è storia.
In "Eight Days A Week" non ci sono particolari per i fan della band, ma è una bellissima passeggiata lungo il viale del ricordo e un ottimo testo di storia per spiegare alle nuove generazioni, attraverso la storia di quattro amici, la portata del fenomeno Beatles e della Beatlemania.
In aggiunta al documentario ci sono 30 minuti del live allo Shea Stadium di New York City nel 1965 in una versione ad alta qualità, rilavorata e proposta con tecnologia 4K; un lavoro di ringiovanimento fatto anche per "The Beatles At The Hollywood Bowl", unico album live ufficiale della band risalente al 1977 (ma il concerto avvenne nel 1964) e pubblicato per la prima volta in CD quasi in concomitanza con l'uscita del film. La versione 2016 dell'album riesce a mantenere le imperfezioni della registrazione originale con le urla della folla, ma rendere pulito il suono della musica, grazie anche al lavoro di produzione di Giles Martin, figlio di George, storico collaboratore dei Beatles scomparso proprio quest'anno.