Franco Battiato, il maestro che si faceva beffe del pop, inseguendo i giganti, e che un giorno pianse avvertendo la presenza di Dio

Franco Battiato, il maestro che si faceva beffe del pop, inseguendo i giganti, e che un giorno pianse avvertendo la presenza di Dio

Franco Battiato, il maestro che si faceva beffe del pop, inseguendo i giganti, e che un giorno pianse avvertendo la presenza di Dio


18 maggio 2021, ore 11:38 , agg. alle 15:58

Una vita a caccia di sfide artistiche, dalla musica sperimentale alle canzoni “intelligenti” che sbancavano le classifiche. Un genio che amava farsi da parte per cercare una dimensione spirituale in cui far scomparire le piccolezze dell’esistenza

Quel giorno avvertì attorno a lui la presenza di Dio. Non era un’illusione, non poteva esserlo. Era il 19 marzo 1989, Franco Battiato si stava esibendo nella Sala Nervi. In Vaticano, di fronte a Giovanni Paolo II. Il Papa aveva ricavato una forte impressione da certe liriche del Maestro. Non quelle più dichiaratamente pop, che erano allusive, astute, giocose nel caleidoscopico incollaggio di slogan, titoli e versi altrui e frasi fatte della “cultura” nazionale popolare. No, Wojtyla era rimasto incantato dalle invocazioni, le preghiere trans-religiose che Franco aveva mirabilmente messo in musica. Quando fu il momento di intonare davanti al Pontefice “E ti vengo a cercare”, la voce di Battiato si spezzò. Restò sopraffatto dall’emozione, incapace di proseguire, finché, con una sorta di benedizione, il Santo Padre gli restituì il coraggio di proseguire.

Le lacrime per De André

Una seconda volta, su un palco, Battiato fece capire di avere un’anima nuda, esposta. Al Teatro Carlo Felice, il 12 marzo 2000, si omaggiava la scomparsa di Fabrizio De André, in una serata in cui i big della scena musicale erano chiamati, senza filtri né protagonismi, a reinterpretare i capolavori di Faber. A Franco toccò la soave “Amore che vieni amore che vai”. E anche qui, d’un tratto, la sua voce si incrinò. “Piangevo”, ci disse molto tempo dopo, “perché mi era parso di vedere Fabrizio materializzarsi davanti ai miei occhi. Il suo ricordo mi travolse: i giorni della nostra antica amicizia, le cene a casa sua”. Perché Battiato sapeva essere elusivo, farsi da parte, amava rintanarsi chissà dove, nella sua amata casa di Milo come nelle dimore invisibili dello spirito. Ma sapeva godersi la compagnia degli amici. Un suo vezzo da intellettuale capace di mischiare alto e basso era raccontare le barzellette. Quelle spinte.

Un genio che ha attraversato i tempi

Il suo traguardo era trascendere le epoche in cui era costretto a vivere, o almeno anticiparle. Eppure, si ritrovava perfettamente inserito nel tempo artistico in cui operava. Uno dei suoi scopritori, a Milano, era stato Giorgio Gaber, che ne aveva intuito l’originalità ascoltandolo in un piccolo locale. Ma il canzonettismo di fine anni Sessanta andava stretto a Franco, che nei Settanta, complice anche la frequentazione con Stockhausen, si inoltrò nei territori complessi, “di nicchia”, della musica contemporanea. Gli sperimentalismi dei primi album (su tutti “Pollution”) e l’infatuazione per l’elettronica ne fecero un mito per la “controcultura” di quel periodo turbolento per la contestazione studentesca e le contrapposizioni politiche. Significativa la sua partecipazione a uno dei grandi raduni dell’ultrasinistra giovanile, al Parco Lambro. Ma all’alba degli Ottanta Battiato decise per scommessa che avrebbe letteralmente inventato, di sana pianta, il “suono” di un pop italiano inusuale, irresistibilmente futuribile. E con “La voce del padrone”, quarant’anni fa, conquistò la cima delle classifiche. Era il Battiato che tutti avrebbero imparato ad amare. Con pietre miliari qui e là, da allora. Dal finto nonsense di “Centro di gravità permanente”, all’invettiva feroce di “Povera patria” (nell’era di Tangentopoli). E i sentieri mistici dissimulati nel canto d'amore de "La cura". Fu mentore di Alice, Giuni Russo, Carmen Consoli. Operò in ditta con un musicista sopraffino come Giusto Pio e un filosofo del calibro di Manlio Sgalambro. Da pittore, ritraeva con l’occhio della mente i dervisci e i maestri Sufi. Era anche regista, perso per anni dietro a un film su Beethoven. Bellocchio gli offrì la parte di Moro in “Buongiorno notte”, ma rifiutò. Si avvicinava pian piano agli anni del silenzio. E del Mistero.


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