I cinquant'anni di Sticky Fingers, il capolavoro dei Rolling Stones con la copertina-scandalo di Andy Warhol

I cinquant'anni di Sticky Fingers, il capolavoro dei Rolling Stones con la copertina-scandalo di Andy Warhol

I cinquant'anni di Sticky Fingers, il capolavoro dei Rolling Stones con la copertina-scandalo di Andy Warhol


Il 23 aprile 1971 veniva pubblicato uno degli album-chiave della discografia di Mick Jagger & Co. Dopo gli arresti e i lutti che avevano sancito la fine del decennio precedente, la band reagiva apriva i Settanta nel segno della trasgressione e del miglior rock di sempre

I critici non lo accolsero con unanime favore. Eppure, quando il 23 aprile 1971 “Sticky Fingers” uscì in Gran Bretagna (e una settimana più tardi negli Stati Uniti) sembrava chiaro che i Rolling Stones fossero rimasti nella corsia di sorpasso. In fuga da quei Sixties ricchi di speranze e illusioni, ma dannatamente spietati: c’erano da inaugurare i Settanta, decennio ancor più angoscioso e violento, la botola planetaria in cui sarebbe finita una generazione di sognatori. “Sticky fingers” stava al suo tempo così come gli altri tre capolavori della tetralogia in studio avevano segnato il proprio: “Beggars Banquet” era il diario doloroso del ‘68, dopo le persecuzioni giudiziarie per droga ai danni di Mick Jagger e Keith Richards, ma anche il pamphlet rock del Maggio rivoltoso. “Let it bleed”, nel ‘69, emanava i cupi bagliori della perdita, la morte del chitarrista Brian Jones e l’omicidio di uno spettatore da parte degli Hell’s Angels al maxiraduno con gli Stones ad Altamont. Infine, nel 1972, “Exile on Main Street” si sarebbe rivelato il documento di una band disperata, ma aggrappata al genio creativo e alla sopravvivenza tra gli eccessi r’n’r.


LA CERNIERA LAMPO, NON SOLO UN SIMBOLO

Con “Sticky Fingers” (oggi ripubblicato in una speciale edizione) i Rolling Stones dichiaravano una definitiva indipendenza discografica. Per chiudere gli accordi con l’etichetta Decca, che chiedeva un singolo di fine contratto, il gruppo offrì una canzone dal titolo censurabile, “Cocksucker blues”, citazione senza equivoci del sesso orale. Gli Stones si misero in proprio con un logo (la linguaccia fuori dalle labbra) irriverente ma non così scandaloso quanto la copertina dell’album, progettata da Andy Warhol. Nelle prime copie la cerniera lampo che apriva quei jeans disegnati era reale, ma rovinava il vinile. Così fu sostituita con una di cartone. Il modello non era Jagger, come alcuni pensavano, ma Joe Dallesandro, fedelissimo della Factory di Warhol. E la busta interna era la foto di un paio di mutande che contenevano un membro maschile. Ma il mondo era pronto per simili provocazioni? Nella Spagna franchista la cover fu sostituita da inquietanti dita femminili che spuntavano da un barattolo; nella Russia post sovietica il bacino sexy divenne quello di una donna.



L'AMBIGUITÀ DI "BROWN SUGAR"

E le canzoni di “Sticky Fingers”, così dirette nella loro efficacia blues-rock, non rinunciavano a una buona dose di astuta ambiguità. “Brown Sugar”, con quel ruvido riff della chitarra di Richards, sembrava alludere all’eroina, ma Jagger insisteva che fosse un riferimento sessuale alla sua amante di allora, Marsha Hunt. Mentre anche i “Wild Horses” della sontuosa ballata, lungi dall’immortalare scenari western, celano allusioni alla droga. Più trasparente “Sister Morphine”, storia di un tossico all’ultimo stadio, con il testo scritto dall’ex compagna di Mick, Marianne Faithfull, la cui immagine virginale era uscita a pezzi, nel ‘67, dall’irruzione di Scotland Yard nella villa di Redlands. Con lei, i ragazzi della band e altri ospiti illustri colti nei postumi di un’orgia con uso improprio di barrette di Mars.


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