Oggi è l’anniversario dell’attentato di Nassiriya, nel 2003 morirono 19 italiani, tra carabinieri, militari e civili

Oggi è l’anniversario dell’attentato di Nassiriya, nel 2003 morirono 19 italiani, tra carabinieri, militari e civili

Oggi è l’anniversario dell’attentato di Nassiriya, nel 2003 morirono 19 italiani, tra carabinieri, militari e civili


Diciassette anni fa, il 12 novembre, il ground zero degli italiani. Alle 10,40 di Nassiriya, le 8,40 da noi, vennero uccisi in un attentato terroristico 12 Carabinieri, 5 militari dell’ Esercito e due civili.

A Nassirya ci sono stato. Ci ero arrivato con un volo dell’Esercito Italiano, verso la fine di ottobre. Dopo una quindicina di giorni, passati tra Nassirya, Bagdad e Falluja per raccontare ciò che stava accadendo, il 9 novembre 2003, tre giorni prima dell’attentato, sono salito su un C 130 che mi ha riportato in Italia. Sono stato nella base dell’attentato. Ho conosciuto i militari e carabinieri che sono morti. Il 13 novembre 2003, sul quotidiano La Stampa usciva questo articolo. Per non dimenticare.


LA STRAGE DI NASSIRIYA

«Nella base prima del massacro»

di Luigi Tornari

NASSIRIYA Ci eravamo dati appuntamento per bere insieme un Daiquiri a metà di dicembre, quando sarebbe ritornato dalla missione in Iraq. L'antica Mesopotamia non concedeva pause di relax. Massimo Ficuciello era un riservista, lavorava nell'ufficio cambi milanese di una banca. «Sono un po’ stanco dei numeri. Mi prendo una pausa e vado in Iraq. Poi deciderò», mi aveva detto poco prima di partire per Nassiriya, un mese fa. Novanta giorni di ferma volontaria. Gli avevo chiesto di aiutarmi per trovare il modo più rapido per farmi arrivare in Iraq con un volo militare.

Mi ha organizzato il trasferimento e, 15 giorni fa, sono arrivato in Iraq. «Servono persone che parlano bene inglese e mi hanno chiamato». Figlio del generale Alberto Ficuciello, Massimo si era laureato a Londra. A Nassiriya era inserito nello staff della Pubblica Informazione, agli ordini del colonnello Gianfranco Scalas. Il tenente Ficuciello, insieme con un'altra delle vittime dell'attentato, il maresciallo Silvio Olla, per quattro giorni ha accompagnato i giornalisti nelle varie basi del contingente italiano di stanza nel Sud dell'Iraq. Anche in quella dell'attentato di ieri.

Dall'ufficio stampa interforze, nel campo di «White Horse» dove alloggiano i soldati dell'esercito, poco fuori Nassiriya, nella polvere della pianura desertificata da Saddam Hussein per sottomettere gli sciiti, si percorrono sette chilometri a bordo di mezzi blindati. Poco prima di un ponte sull’Eufrate si arriva alla base «Maestrale», la sede del comando dei carabinieri di stanza in Iraq. La stessa strada che ieri, come ogni giorno, Olla, Ficuciello e gli ufficiali dell'ufficio Pubblica Informazione hanno percorso. I contatti tra le forze armate in Iraq sono quotidiani. La base ha una superficie pari a quella di un campo da calcio. Una sbarra bianca e rossa, una garrita verde avvolta nel filo spinato e un mezzo blindato costituiscono l'ingresso. Oltre, una strada lunga una ventina di metri. Ai lati una decina di barriere di cemento occupano, sfalsate, il percorso di accesso.

Il «compound» si snoda sulla destra. Subito una palazzina di mattoni, quella sventrata dall'esplosione. C'erano alcuni uffici e la zona ricreazione. Nel cortile una trentina di mezzi militari blu. Sulle portiere la scritta «Carabinieri», in italiano e in arabo. Più in là un'altra costruzione, a due piani, verde e beige. Un'inferriata, sormontata da filo spinato, separa la caserma dalla riva destra dell’Eufrate. Dal cortile si vede un ponte, seminascosto dai container vuoti utilizzati per trasportare il materiale del Genio. Questa zona non è stata toccata dalla deflagrazione. Più in là ancora, gli alloggi delle truppe. Da una parte le tende gonfiabili con le brandine e gli armadi da campo arrivati quest'estate. Dall'altra alcuni alloggi prefabbricati, ancora in fase di allestimento. Piccole camere nelle quali dormiranno gli ufficiali.

La vita si svolge con ordine ma è molto intensa. «Non abbiamo la libera uscita, quindi siamo sempre concentrati sul nostro lavoro - racconta un maresciallo -. Sono quattro mesi faticosi ma gratificanti. Aiutiamo una popolazione a rinascere e questo mi basta». Il tenente colonnello Gino Micale, comandante del reggimento «Msu» («Multinational specialized unity») lavora in un ufficio spazioso. Un tavolo da riunioni ovale, cartine alle pareti e un frigorifero bianco. «Il nostro rapporto con la popolazione locale è ottimo - dice -. E' una delle prerogative dell'Arma quella di avere dei contatti a misura d'uomo con i cittadini. Accade in Italia e qui è lo stesso. Siamo carabinieri. Stiamo addestrando la polizia irachena. E' uno dei nostri compiti. La situazione è relativamente tranquilla, ma il nostro stato d’allerta è massimo». Il tenente colonnello Micale in Italia comanda il Nucleo della provincia di Napoli. Offre un caffè italiano, orgoglioso del sapore ricreato a 4 mila chilometri da casa. Anche la mensa della base dei carabinieri ha molto di italiano. Spaghetti aglio e olio e arrosto ai funghi era il menù di mercoledì scorso, rigorosamente mediterraneo. Le materie prime arrivano dall'Italia.

Una quarantina di tavoli rettangolari disposti su tre file, in un capannone bianco. Sul fondo quello riservato al comandante del contingente, il colonnello Georg Di Pauli. E' un paracadutista, dal fisico asciutto, con un viso spigoloso. «Stiamo lavorando bene - dice -. Siamo professionisti, abituati alle missioni all'estero. Molti di noi sono già stati in Kosovo e Somalia. Le differenze? Ogni missione è diversa dall'altra».

Torno a Nassiriya, dopo essere stato nel Nord dell'Iraq. Da Baghdad e Falluja le parole più lievi nei confronti degli americani, tra i funzionari dell'amministrazione civile e tra la popolazione, sono quelle di «invasori e colonizzatori». «E' legittimo attaccare i marines per difendere il proprio Paese - dice il segretario dell'amministrazione civile di Falluja, Ahsid Al Rashid -. Siamo come in Palestina e in Somalia». Prima di rientrare in Italia, chiedo a uno dei miei interlocutori a Nassiriya quando sarebbe toccato a lui tornare: «Sono i miei ultimi 15 giorni qui. Gli americani li chiamano i maledetti ultimi 15 giorni». Così è stato.


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#12novembre2003
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