Quindici anni senza Syd Barrett, il diamante pazzo dei Pink Floyd, che si perse nei labirinti della sua mente in un’epopea rock
Quindici anni senza Syd Barrett, il diamante pazzo dei Pink Floyd, che si perse nei labirinti della sua mente in un’epopea rock
07 luglio 2021, ore 18:27
Il 7 luglio 2006 moriva il fondatore della leggendaria band, cacciato dai compagni per la sua instabilità psichica dopo aver contribuito in modo decisivo all’album del debutto. Un giorno, molto tempo dopo, fece capolino negli studi di Abbey Road. Era irriconoscibile.
“Hey, ragazzi, chi è quel tizio accanto al mixer? Qualcuno di voi lo conosce?”, chiese Roger Waters a Nick Mason e Richard Wright. Come era stato possibile che un intruso dall’aria disorientata fosse riuscito a introdursi nei “sacri” studi di Abbey Road? Era un individuo dalla corporatura massiccia, completamente calvo, con le sopracciglia rasate, e una busta della spesa in mano. L’avresti detto inoffensivo, malgrado l’espressione assente nei suoi occhi, persi in qualche mondo remoto e inaccessibile. “Un momento”, disse allarmato David Gilmour fermando le dita sulla chitarra. “Quello è...oh, no, quello è Syd!”. Per una bizzarra congiuntura astrale, i Pink Floyd stavano provando proprio il brano dedicato al loro ex leader. Era il 5 giugno 1975, la musica quella di “Shine on you crazy diamond”. Lo accolsero, gli fecero festa, con i cuori stretti in una morsa. Gli chiesero cosa ne pensasse, Barrett rispose che il pezzo suonava “un po’ sorpassato”. Gli domandarono il perché di quella sua trasformazione fisica: Syd precisò tutto orgoglioso di “avere un grande frigorifero pieno di carne”. Passò il resto di quella giornata a lavarsi compulsivamente i denti ad Abbey Road. I quattro amici lo salutarono con le lacrime agli occhi. “Wish you were here”: c’era, ma non era lì. L’unico a vederlo di nuovo, prima della morte avvenuta il 7 luglio 2006, fu Waters: Barrett stava facendo compere da Harrod’s.
Da Cambridge a Londra e ritorno
Negli ultimi tempi, ormai perso in se stesso, Barrett passava le giornate seduto nel giardino della casa materna, a Cambridge, studiando i fiori e gli insetti, come un anacoreta alla ricerca della saggezza. A stroncarlo fu un tumore al pancreas. Per tutta la sua vita la salute mentale era andata declinando: non vi fu mai una diagnosi definitiva della sua patologia. Schizofrenia? Disturbo bipolare? Secondo Gilmour si trattava invece di una grave forma di epilessia, le cui crisi venivano peggiorate dalle luci sul palco e dalla “sperimentazione” delle droghe pesanti che sin dai primi anni sessanta avevano fatto della pacifica città degli studi il centro più sballato di tutta l’Europa occidentale. Barrett aveva comunque il tema della duplicità nel suo destino. Esisteva un quasi omonimo, un batterista di nome Sid (con la “i”) Barrett. Lui provò a distanziarsene con la “y”, ma il suo vero nome era Roger, come quello dell’amico della gavetta adolescenziale, Waters. Ed era un chitarrista come Gilmour, il suo sostituto nei Pink Floyd, ma anarchico al punto di scordare lo strumento durante i concerti, rendendo ingestibile il suo “stile” eccentrico. A Natale del ‘67, dopo un album folgorante come “The piper at the gates of dawn” decisero di non passarlo a prendere a casa, mentre si recavano nel locale dello spettacolo. Barrett capì che cominciava il “dopo”, ed era ancora solo un ragazzo.
La mitologia dell’Ufo
Eppure, c’era del metodo nella sua follia. Le prime canzoni (alcune ispirate da James Joyce, altre dal nonsense) erano immerse nella destrutturazione della musica concreta, fatta di rumori quotidiani. Il lavoro sulle luci psichedeliche dal vivo, con effetti suggestivi che richiamavano i paradisi artificiali, era pura pop-art. Le performance live erano un salto nel vuoto: a volte Syd si rifiutava di suonare una singola nota e si sedeva sul palco, guardando gli altri, come se la cosa non lo riguardasse. Ma tutta la comunità rock di Londra (a partire dal super fan David Bowie) accorreva per ascoltare i primi Pink Floyd - compensi da 5, 10 sterline - all’Ufo, lo scantinato di Tottenham Court Road in cui si cominciava a suonare a tarda sera. Al piano di sopra c’era un cinema, il fracasso degli amplificatori disturbava le proiezioni. Il vero spettacolo era Syd: che spesso si presentava in scena con i capelli intrisi di brillantina e Mandrax tritato. Il calore delle luci faceva sciogliere man mano quella poltiglia, come in un rito dei misteri eleusini. Barrett era una maschera psichica. Lo sapevi Oltre, ovunque fosse quell’Oltre. Era anche un piromane, e un compagno violento per le fidanzate. Nessuno poteva prevederne la mossa successiva, ma prima di ritirarsi del tutto nella sua tenebra riuscì a incidere un paio di album solisti, “The madcap laughs” e “Barrett” che segnarono in modo indelebile l’inafferrabilità di quei primissimi anni Settanta. Poi, i suoi compagni raccontarono al mondo del lato oscuro della luna e del Muro. Lui, Syd, era stato il proprietario di un furgone rosa, sul cui parafango aveva pennellato con la vernice la scritta “Pink Floyd”. Ma non riuscì mai a fare quel viaggio fino in fondo, insieme agli altri.