Sessanta giorni di lockdown e di tornare in classe non se ne parla, come sta andando la didattica a distanza
10 maggio 2020, ore 10:00
agg. 17 maggio 2020, ore 16:10
Gesso e banchi, nostalgia canaglia, gli studenti stanno scoprendo che la lezione in classe non era poi così male
"Signorina, accenda il microfono altrimenti non riesco a sentirla". Le parole del professor M. rimbalzano fra tutti gli oltre cinquanta computer degli altrettanti studenti collegati alla lezione dalle loro camere da letto, dai loro salotti, dalle loro cucine. Tutti in attesa di sentire la domanda della collega M., che per qualche motivo ancora non è riuscita ad attivare il suo microfono. Attimi di silenzio e di attesa. C'è chi ne approfitta per prendere fiato, chi per rivedere gli appunti, chi per aprire la finestra curioso di scoprire quante persone sono in giro quella mattina, e quanti di loro indossano la mascherina. "Professore mi sente? Avevo problemi con la connessione, dovrei aver risolto". Non è la prima volta che succede, ma durante la spiegazione i microfoni vanno spenti, il rimbombo sarebbe assordante altrimenti. Sono quasi le dieci del mattino e tutti contano i secondi che mancano alla fine delle lezione, quasi come fossero ritornati per un istante alle superiori. È iniziato maggio, sono passati quasi due mesi dalle prime restrizioni contro il Coronavirus, ma di tornare in università, di tornare a scuola, per il momento non se ne parla.
L'incertezza dei primi giorni
Erano passati già alcuni giorni dal primo decreto della Presidenza del consiglio, ma nessuno sapeva ancora nulla. Sulle chat di whatsapp rimbalzavano i dubbi e le incertezze degli studenti. I più intraprendenti avevano deciso di scrivere ai professori tramite email, ma la risposta era quasi sempre la stessa: "aspettiamo indicazioni più precise". E poi, di colpo, fu chiaro a tutti, ai ragazzi, ai docenti, al personale. In aula non ci si sarebbe andati più, per un po'. Furono giorni quasi felici. In quel marasma che andava creandosi, qualche giorno di stop delle lezioni non era poi così male. Ma lo stop non sarebbe durato, purtroppo, o per fortuna.
"Basta avere un computer"
Alcuni ci hanno messo più di altri ad attrezzarsi, in certi casi si è dovuto aspettare anche due settimane, troppo, ma alla fine tutti sono partiti. Anzi, tutti no. È infatti proprio di queste settimane una ritrovata consapevolezza che forse non è ovvio possedere un computer, oltre che uno smartphone, e una connessione più o meno stabile a internet. Non tutti i ragazzi erano quindi pronti per fare lezione da casa, magari perché proprio nelle loro case internet non ci arriva. L’Italia della solidarietà anche questa volta si è attivata, organizzando raccolte di device in giro per tutta la penisola. In tanti si sono mossi, dalle scuole ai privati alle istituzioni. Gesti che fanno, ancora, ben sperare nel senso di comunità del nostro Paese, ma che ci ricordano che ancora oggi sono tanti, troppi, coloro che non hanno accesso a internet, siano essi giovani o anziani. Sarà bene non dimenticarlo quando tutto questo passerà.
A che punto siamo?
Di piattaforme ne esistono a decine, ciascuno ha scelto la propria. Il funzionamento è, nella sostanza, lo stesso per tutti. Ed è straordinariamente semplice, anche per i docenti a cui piace dirsi fedeli alla lezione frontale, con gesso e lavagna di ardesia. Ora, però, arriva la parte più difficile. Consolidare quanto imparato per farne tesoro quando si tornerà in aula. E non perdersi lungo il tragitto, proprio ora che abbiamo imboccato la via. Perdersi significa non mantenere vivo il contatto umano, seppur tramite una webcam. Perdersi significa non insegnare a studenti e docenti a utilizzare in maniera sana questo straordinario strumento che è la rete. Perdersi significa dimenticarsi che non tutti i ragazzi sono autonomi, che alcuni vanno seguiti e aiutati. “Se pensiamo da dove siamo partiti”, la didattica a distanza “è stata un grande successo”. Sono queste le parole del ministro dell'istruzione Azzolina, dopo circa cinquanta giorni di didattica online. Ed è vero, visti i precedenti è stato un successo. Ma in quella premessa, fatta da un esponente delle istituzioni, c’è tutto l’insuccesso di un Paese che ancora non ha capito che investire nella scuola è un dovere e non un merito.