Un anno fa ero a Codogno e non mi sentivo per niente bene, il ricordo oggi è una ferita che brucia

Un anno fa ero a Codogno e non mi sentivo per niente bene, il ricordo oggi è una ferita che brucia

Un anno fa ero a Codogno e non mi sentivo per niente bene, il ricordo oggi è una ferita che brucia


La consapevolezza di aver il coronavirus è arrivata pian piano, intorno a me panico e confusione

Un anno fa era apparentemente un giorno tranquillo, funestato solo da una brutta influenza, che aveva colpito me, mio padre e alcuni parenti e vicini di casa. Il tutto a San Fiorano, 4 chilometri da Codogno, la cittadina diventata il triste epicentro della pandemia di coronavirus. Da qualche giorno mi sentivo molto stanca e, puntuale come un orologio svizzero, tutte le sere alle 19, dal 15 febbraio, la febbre saliva a 38, dandomi la sensazione di essere finita sotto un tir. Per la verità quel giorno mi sembrava di stare molto meglio e avevo deciso di tornare al lavoro, del tutto ignara che stavo mettendo a rischio contagio i miei colleghi.


Un messaggio ha cambiato tutto

Quella notte, intorno all'1.30, il mio direttore, Luigi Tornari, conoscendo il mio paese d'origine, mi mandò un messaggio, informandomi che a Codogno, per la prima volta al mondo dopo Wuhan, era stato trovato un tampone positivo al coronavirus, quello di Mattia Maestri, che, per fortuna, da paziente uno, ha vinto una battaglia durissima. Ma come? Quando dico che sono nata a Codogno nessuno sa mai dove si trovi e ora proprio qui il coronavirus? La notizia mi stranì parecchio. La mattina dopo, con l'esercito in arrivo, tutte le attività chiuse e un silenzio spettrale, iniziai a realizzare una sorta di reportage per RTL 102.5, filmando l'ospedale e la strade di Codogno e intervistando le poche persone che erano uscite di casa.


Il dubbio

Feci la stessa cosa sabato 22, lavorai per la radio dell'epicentro di Codogno. Stavo però sempre peggio, così come mio padre, e la sera fui costretta a inviare un messaggio al direttore: "Mi devo fermare, non ce la faccio". Da lì è storia comune a tanti. Le telefonate prima al numero di Roma, poi a quelli della Regione, agli ospedali vicini. "Suo padre ha l'influenza, stia tranquilla", "Se non ha avuto contatti con qualcuno tornato dalla Cina non è coronavirus". Per avere un tampone per me nessuna speranza, ma puntavo ad averlo per lui, quasi 84 anni. Dopo ore, letteralmente ore, di attesa al telefono, dati anagrafici lasciati e nessuno che suonasse alla porta, chiesi al numero di riferimento se potessi almeno portarlo a fare una lastra. "No, signora, lo metterebbe a rischio contagio". Poi arrivò l'esercito, i posti di blocco, il panico, ma nessun tampone. Ci siamo curati grazie ai medici di famiglia, ai medici amici, avendo sempre più la consapevolezza di avere contratto il coronavirus. Non vi elenco i sintomi, li sapete già. Dopo un mese abbiamo iniziato a recuperare, per mio padre ci è voluto molto di più. Oggi i ricordi arrivano taglienti come una lama. Vorrei dimenticare tutto, i 39 morti in un anno di San Fiorano, un paese che, di solito, arriva alla metà, la paura, le famiglie ferite, le preghiere, ma non ci riesco e forse è giusto così. 


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